austraLasia

vaclav2018.01.03 22:10

SHARING DURING THE FUNERAL MASS OF Father PIETRO ZAGO

PEROSA ARGENTINA

January 2,2018



E’ difficile sintetizzare l’affetto e la stima che mi legava a Don Pietro Zago. 


Lo conobbi nel gennaio 2013 a Lahore, durante un viaggio che feci in Pakistan per conoscere la sua missione e far visita agli amici sindacalisti che avevo incontrato quando lavoravo all’International Labour Organization. Don Pietro mi accolse nella casa salesiana del quartiere di Youhanabad, l’area cristiana della città, offrendomi non solo un luogo sicuro in cui stare (e in Pakistan non è poco), ma anche un’amicizia paterna e spirituale. Don Pietro aveva già affrontato molti anni di missione in Asia, nelle Filippine, in India, a Papua Nuova Guinea, ma in Pakistan si era trovato di fronte ad una sfida ancora più difficile delle altre. Nonostante il paese sia a netta maggioranza musulmana, con sacche di fondamentalismo ed un’arretratezza culturale che limita fortemente il ruolo delle donne, era comunque riuscito ad ambientarsi e a realizzare grandi progetti, grazie alla sua pazienza, alla tolleranza e anche ad un pizzico di astuzia. Sapeva per esempio mordersi la lingua e trattenersi dal muovere apertamente critiche ai capifamiglia per le manifeste discriminazioni verso le figlie femmine, purchè continuassero a mandarle a scuola e non ostacolassero le numerose attività educative dei Salesiani. La scuola da lui fondata a Quetta, nella parte occidentale del paese, poté quindi fiorire e godere dell’apprezzamento di tutta la popolazione, anche musulmana, seminando lentamente e prudentemente valori e idee cristiani. In perfetto stile salesiano, Don Pietro puntava tutto sulla concretezza dell’educazione e della formazione professionale, dando un’opportunità di istruzione e avviamento al lavoro a tanti ragazzi e ragazze. Non faceva proselitismo per non incorrere in pericolose rappresaglie, che avrebbero compromesso l’intera missione, ma con la sua testimonianza personale ha certamente toccato il cuore di tanti pakistani. Soleva dire che la durezza del Pakistan, la difficoltà a vivere liberamente la fede, lo avevano reso più Cristiano. 

Il suo amore per Gesù era stato temprato da una lunga esperienza sul campo, dai tanti spostamenti da un paese all’altro, ognuno con la sua lingua, il suo clima, e i suoi costumi (in Papua Nuova Guinea aveva persino conosciuto i popoli cannibali…), da delusioni umane come quelle che capitano un po’ a tutti. Era un amore ormai “ripulito” dai fronzoli inutili, dalla forma, dalle fantasie. Parlava di Gesù come di una persona a cui aveva dedicato la sua vita e ultimamente si chiedeva spesso: “Gesù, quando tornerà, troverà ancora fede sulla Terra?”, preoccupato com’era della secolarizzazione in cui è sprofondato l’occidente. 

Parlava con serenità della sua morte e si diceva persino curioso di vedere ciò che Cristo ci ha promesso per l’aldilà. 

Aveva imparato a vivere il Cristianesimo, prima di parlarne. E la sua capacità di entrare in relazione con l’umanità del prossimo, a prescindere dall’appartenenza religiosa, gli aveva permesso di farsi tanti amici, anche tra i musulmani. Ricordo che due o tre anni fa, nel periodo in cui i musulmani attaccavano le case dei cristiani a Youhanabad, incendiandole, lui e i suoi ragazzi avevano nottetempo trovato rifugio presso la fabbrica dei vicini musulmani, a riprova che il dialogo è possibile, sempre e comunque, laddove ci si incontra sul terreno della bontà e dell’umanità. Don Pietro sapeva farsi degli amici, non aveva paura della diversità e sdrammatizzava le oggettive difficoltà di vita in un contesto così avverso, coltivando semplici piaceri come la buona cucina o una bella partita di cricket. Era un uomo che la profonda unione con Gesù aveva reso più uomo, più umano. 

Ora spero che i limpidi occhi azzurri di Don Pietro sorridano per sempre nella sua nuova missione.


Monica Canalis - Fraternità del Sermig, Arsenale della Pace di Torino

29/12/2017

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